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Anche a Sciacca ‘sbarchi fantasma’: C’è rischio terrorismo?


Nel corso delle ultime settimane assistiamo a un fenomeno che sempre più preoccupa la popolazione, i cosiddetti “sbarchi fantasma”.

Le coste siciliane, in particolare quelle agrigentine, dopo il presunto e discutibile accordo tra lo Stato italiano e i fratelli Dabbashi (trafficanti di uomini che avevano organizzato la tratta dalla Libia che avrebbero ricevuto milioni di euro per interrompere i loro traffici verso l’Italia) la migrazione dai paesi del Nord Africa ha ripreso la vecchia rotta dalla Tunisia alla Sicilia.

Chi sono e quale pericolo rappresentano per noi questi migranti, autentici fantasmi che una volta raggiunte le nostre coste sembrano volatilizzarsi senza lasciare alcuna traccia?

Su questo tema si divide tanto l’opinione pubblica quanto il mondo politico e le stesse istituzioni. Secondo taluni, tra questi migranti si anniderebbero, o potrebbero annidarsi, anche terroristi islamici; altri, sarebbero pronti a giurare che questo pericolo è inesistente.

Premesso che già in passato, grazie all’attività d’intelligence e delle forze di polizia, si è arrivati all’arresto di pericolosi terroristi che si erano nascosti tra i migranti, e che alcuni dei protagonisti di atti di terrorismo erano precedentemente arrivati tra i migranti che sbarcano sulle coste agrigentine, il fatto stesso che questi nuovi migranti-fantasma riescano a sfuggire a ogni forma di controllo e identificazione, oggettivamente dovrebbe impedire dichiarazioni in merito a certezze che oggi non può avere nessuno di noi, né in un senso, né tantomeno nell’altro.

Il tema dei “foreign fighters”è stato negli ultimi anni uno dei più dibattuti a livello internazionale. Soggetti che dopo aver aderito al terrorismo islamico ed aver preso parte ad attività terroristiche in Siria o in Iraq, possano tornare in Europa per portare a termine attentati in Occidente, non rappresentano solo un rischio aleatorio, si tratta infatti di un dato di certezza che ci è stato confermato dai precedenti attentati, come, per esempio, quello avvenuto a Parigi il 13 novembre 2015. Un’analisi seria, e non azzardata, è quella che invece riguarda la prevenzione e nessuna forma di prevenzione può fare a meno dello studio dei fenomeni di radicalizzazione che hanno visto molti jihadisti impegnati in Siria e in Iraq, provenire dall’Europa e dalla stessa Italia.

Polizia durante gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015

A differenza di al Qaeda, come avevo già scritto su una rivista francese (sintesi riproposta lo scorso anno in italiano) lo Stato Islamico ha saputo sfruttare al massimo le moderne tecnologie e le nuove tecniche di comunicazione, ottenendo ampi consensi anche in Occidente, trasformando l’organizzazione terroristica in una struttura capace di programmare un’attività politica che attrae sempre più giovani, i quali riescono a loro volta a coinvolgere piccoli gruppi basati su relazioni famigliari o di amicizia.

Nel corso degli anni durante i quali mi infiltraii nel mondo delle cellule islamiche che operavano indisturbate sui social network, monitorai diversi casi di soggetti che, seppur non impegnati militarmente in attività terroristiche o nella qualità di combattenti in Siria o in Iraq, svolgevano il ruolo di supporter dello Stato Islamico, favorendo la migrazione verso il cosiddetto “Califfato” o divulgando le teorie dell’islam più radicale e violento allo scopo di formare nuove cellule in Europa.

In diversi casi l’abilità di facilitatori e facilitatrici nel convincere giovani ragazzi e ragazze a intraprendere un percorso di radicalizzazione era superiore persino a quella dell’indottrinamento da parte dei falsi imam che basavano la loro opera solamente sulla propria competenza negli studi islamici, prospettando un’interpretazione della Sharia, tanto rigida da intimorire le nuove reclute.

A differenza di costoro, i supporter – uomini e donne che agivano in ambito famigliare, nella cerchia delle amicizie o all’interno dei gruppi sui social network – adottavano tecniche persuasive più soft rispetto quelle tradizionali (come nei casi di radicalizzazione nelle carceri) favorendo in maniera graduale l’acquisizione dei valori radicali che si sarebbero manifestati solo successivamente nei comportamenti delle nuove reclute, alcune delle quali avrebbero finito con l’abbracciare l’estremismo violento, grazie alla successiva manipolazione da parte degli ex mujāhidīn trasformatisi i imam.

Il passaggio da una radicalizzazione intesa come acquisizione di valori legati al mondo islamico più rigoroso, per arrivare a una radicalizzazione comportamentale che si esplicita nell’azione illegale, se non in quella terroristica, non sempre avviene, ma sta comunque alla base del percorso di formazione teorica e religiosa di tutti i jihadisti.

È necessario distinguere dunque almeno tre forme di radicalizzazione. La prima, quella di soggetti che abbracciano le credenze dell’islam più radicale; la seconda, quella di coloro i quali aderiscono, quantomeno ideologicamente, a gruppi armati; la terza, quella di coloro che finiscono con il prendere parte a combattimenti o che portano a termine – o progettano – attentati terroristici.

Alla prima forma, potremmo ascrivere tutti quei soggetti che manifestano atteggiamenti riconducibili alle credenze più radicali – resi evidenti anche dal modo di vestire e dal professare la propria fede – che aspirano, comunque, alla trasformazione dello stato sociale, in applicazione dei dettami coranici; alla seconda, soggetti come il Claudus Delasvegus, del quale ho scritto nell’articolo dal titolo “Jihad-Dall’autoformazione a Sharia4”, o l’italiano Luca Aleotti; alla terza personaggi come Maria Giulia Sergio, Abderrahim Moutaharrik, Oussama Khachia, Sara Pilè, Alice Brignoli, Giuliano Delnevo e molti altri.

Le persone citate in quest’ultima categoria di radicalizzati, hanno in comune tra loro alcuni aspetti. La loro radicalizzazione non sembra sia avvenuta secondo quelli che erano i luoghi e i metodi tradizionali, infatti,  facevano parte di piccoli gruppi auto-radicalizzatisi nell’ambito di relazioni personali preesistenti, a volte anche famigliari, coinvolgendo successivamente altre persone; dalla fase di acquisizione dei valori islamici più tradizionali – dopo aver attraversato una fase di intolleranza nei confronti delle altre fedi religiose – sono passati ad esprimere le posizioni dell’islam più violento, arrivando a compiere gravi reati.

Intere famiglie, a seguito della radicalizzazione di un loro membro, hanno finito con il seguirne il percorso ideologico e, purtroppo, a volte anche quello attivo, come dimostrano i tanti casi di terroristi appartenenti alla stessa famiglia.

Dopo la morte di Amer al Jazrawi, avvenuta in Libia, uno dei massimi leader dello Stato Islamico (per il quale si prospettava la possibilità di assumere il ruolo di Abu Bakr al-Bagdadi, il Califfo dell’ISIS nel caso in cui lo stesso fosse morto), è Jalal al Din al Tunisi, un tunisino di nome Muhammad bin Salim, a suo tempo nominato,dallo stesso Califfo, emiro dell’organizzazione in Libia, che oggi, a seguito della perdita dei territori i Siria e Iraq, rappresenta l’avanguardia dell’espansione dell’organizzazione terroristica nella regione nord africana.

Migranti durante sbarco fantasma – Foto di archivio

“Al Tunisi”, come dice il suo nome di battaglia, è nato a Tunisi e in Tunisia può contare su un elevato numero di supporter pronti a seguirlo in battaglia, come ha dimostrato in Libia, ma anche a rendersi disponibili ad eventuali azioni terroristiche in Europa.

Possiamo escludere a priori che con i cosiddetti “sbarchi fantasma” non arrivino nel nostro territorio terroristi o soggetti radicalizzati che daranno luogo alla formazione di nuove cellule? Le uniche certezze che abbiamo, sono quelle che diversi terroristi, autori di attentati in Europa, sono passati da noi, e che, grazie alla fattiva opera delle nostre forze di polizia, alcuni estremisti sono stati arrestati o espulsi prima che potessero compiere atti violenti, ma senza una seria azione di contrasto al fenomeno degli “sbarchi fantasma”, chi può garantire che gli stessi espulsi per “ragioni di sicurezza dello Stato” (così come si legge nelle motivazioni ministeriali) non facciano ritorno da noi?

Eppure, nonostante ciò, senza neppure avere identificato questi “immigrati fantasma”, sembrerebbe che gli stessi per noi “non rappresentino alcun pericolo”.

di

Gian J. Morici